Apollo Space Suite
U.S.A., 1969 d.C.
Percorsi evolutivi
Epoca materiali di sintesi
Luogo: U.S.A.
Caratteristiche: -
Materiali acqua, nylon, teflon
Utilizzo: militare (aerospaziale)
Tipologia: vestiario per missione lunare
Progettista: N.A.S.A.
APPROFONDIMENTO
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La feroce competizione tra Unione Sovietica e U.S.A. durante la Guerra Fredda fu tra i principali motivi che spinsero le due superpotenze a lanciare un missile nello spazio e mandare l’uomo sulla Luna. Gli anni delle missioni Mercury (1961-1963), Gemini (1965-1966) e Apollo (1968-1972) furono periodi magici della storia e tra le immagini più incredibili del ventesimo secolo ci sono quelle degli astronauti vestiti di bianco che camminano sulla Luna. Le tute bianche erano il culmine di programmi di ricerca che utilizzarono tessuti, metalli, plastiche e collanti in modi mai sperimentati prima.

La tuta spaziale è, per intenti e propositi, una nave spaziale in miniatura, progettata per mantenere gli astronauti in vita ed in buona salute anche nella condizioni più ostili.

Una delle prime tute protettive fu realizzata in Inghilterra negli anni ’30; progettata dalla Siebe, Gorman & Co., fu testata da Mark Ridge ed era molto simile ad una tuta subacquea. Era composta da lana e cotone con rivestimenti di fogli di alluminio. Le qualità di questi materiali, uniti tra loro, avrebbero offerto una certa protezione.

Nello stesso periodo Wiley Post, come premio per una competizione aerea, vinse un aeroplano per poter compiere un giro attorno al mondo. Egli notò come ad altitudini elevate la velocità aumentava contestualmente alla diminuzione della temperatura e del livello d’ossigeno. Dato che la tecnologia del tempo non permetteva la pressurizzazione della cabina, si rendeva necessario un diverso sistema di protezione. Nel 1934 Post lavorò assieme a Russell Colley della B. F. Goodrich Company per realizzare una tuta adeguata che era formata da due strati con una camera d’aria ed un rivestimento di cotone imbottito ed includeva stivali di pelle, guanti e casco. (Fig. 1)

Seguì un periodo di ferventi progressi nel campo che culminarono con la realizzazione delle tute della serie Mark realizzate sempre dalla B. F. Goodrich Company per conto della Marina Militare Americana. Queste tute erano costituite da un doppio strato con una camera d’aria ed un rivestimento di nylon verde pesante che la proteggeva. Una serie di nastri, fili e zip uniti al nylon esterno impedivano alla camera d’aria di gonfiarsi come un pallone quando veniva pressurizzata. Nonostante gli stivali in gomma, erano necessari anche stivali in pelle. I guanti, sempre costituiti da vesciche in gomma e con ricopertura in nylon e pelle erano bloccati ai polsi da un anello di alluminio.

Nell’aprile del 1959 fu selezionato il primo gruppo di astronauti per la Missione Mercury; essi indossavano tute della serie Mark IV. Dato che non erano richiesta attività esterne alla nave spaziale, il sistema di pressurizzazione delle tute non veniva mai utilizzato e sarebbe servito solo nel caso di malfunzionamento di quello interno alla cabina. La differenza dalle precedenti tute consisteva nel rivestimento argentato di polvere di alluminio incollato al nylon verde esterno (Fig. 2).

Il programma Gemini, aveva come scopo quello di testare le navi spaziali, la resistenza a lungo termine degli astronauti e la loro abilità a svolgere incarichi esterni alla navicella; questo richiese delle nuove tute, in grado di essere leggere e flessibili e allo stesso tempo ignifughe. La David Clark Company progettò per la N.A.S.A. l’abbigliamento che consisteva in due configurazioni a seconda dei compiti da svolgere, se entro il veicolo intraveiculare (IV) se esterna extraveicolare (EV). La prima aveva meno strati di isolante mentre la seconda aveva sette strati supplementari di Mylar alluminizzato con distanziali in Dacron, ed uno strato di HT-Nylon per proteggere gli astronauti quando erano fuori dalla nave spaziale. Nel dicembre del 1965 vennero così progettate delle tute che permettessero mobilità quando erano pressurizzate per lunghi periodi e comfort quando non lo erano: le nuove tute si chiamavano G5-C ma erano conosciute come Grasshopper Suite (tute da cavalletta) e prevedevano dei caschi interni al rivestimento esterno. La tuta pesava circa 5,5 kg e comprendeva un grande elmetto interno che era indossato come un indumento leggero protettivo che pesava 1,8 kg circa. La visiera flessibile in policarbonato attaccata al casco dava l’aspetto di un grande occhio di cavallette (da cui il nome). Le tute erano estremamente confortevoli, fatte di tessuto nomex con strato aderente della link-net e delle piccole parti aggiuntive in maglia nomex sulle spalle per assicurare mobilità. (Fig. 3).

La tuta spaziale progettata per la missione Apollo della N.A.S.A. era un indumento gonfiabile La creazione dell’abbigliamento presentò molti problemi alla squadra incaricata di realizzarlo: la tuta lunare doveva garantire a chi la indossava adeguata protezione contro le estreme condizioni che potevano verificarsi come il rischio di strappi e perdite dovute alle micrometeoriti che bombardavano la superficie lunare ed inoltre doveva essere abbastanza flessibile per mettere una completa mobilità (camminare e manovrare i veicoli lunari).

Tutte le tecnologie per il viaggio spaziale erano già state sperimentate nelle precedenti missioni Mercury e Gemini però le uniformi per queste missioni dovevano essere modificate in quanto non consentivano di operare al di fuori del veicolo spaziale senza rimanere connessi ad esso, mentre nella missione lunare la totale libertà di movimento era essenziale. Questo era uno degli ambiziosi obiettivi della missione Apollo. Il tentativo di cambiare il guardaroba degli astronauti venne discusso a lungo.

Nel 1962 la N.A.S.A tenne una competizione per il prototipo Apollo scegliendo il progetto più adatto alle proprie necessità. Per i successivi due anni, il livello di mobilità della tuta non incontrò le aspettative della N.A.S.A. ed una seconda competizione fu lanciata nel giugno del 1965. Le tre tute in competizione nel 1965 erano state proposte rispettivamente dalla David Clark Company (AX1-C), dalla Hamilton Standard assieme alla B. F. Goodrich Company (AX6-H) e dalla ILC Industries (AX5-L). Quest’ultima tuta venne selezionata e la ILC fu scelta per dirigere il programma. Le primissime tute utilizzate per l’addestramento alla missione Apollo erano le ultime delle missioni Gemini, con una variante sull’elmetto, in quanto ancora non erano ultimate le fase di progettazione per quelle definitive. La prima tuta indossata sulla Luna era la successiva a quella proposta in fase di gara e venne chiamata dalla N.A.S.A. A7-L (A= Apollo, 7= 7° serie ed L come ILC). Queste tute furono indossate dagli astronauti morti nel tragico incendio del 1 gennaio 1967 nella prima missione.

La prima missione Apollo fu lanciata nell’ottobre del 1968 e doveva essere un test per i sistemi di volo; rimase in orbita attorno alla Terra per oltre dieci giorni. Le nuove tute degli astronauti erano le A7-L e comprendevano delle misure ignifughe con velcro, alluminio ed altri materiali. Come per le tute Gemini, queste tute vennero realizzate in versione IV ed EV. Durante la missione gli astronauti potevano togliere la tuta ed indossare successivamente le “sottotute” fatte come pigiami in cotone assieme alle uniformi “di volo” che consistevano in una giacca, un paio di pantaloni e stivali in teflon bianchi: ignifughi e facili da indossare. Le tute A7-L erano costituite da 26 strati, incluso lo strato di tela beta rivestita di Teflon, il Mylar, il Dacron, il Kapton e il Chromel-R (un acciaio inodissabile che forniva un alto livello di protezione dai micrometeoriti e dagli oggetti taglienti. Anche queste tute erano dotate di chiusura per mantenere la pressione costante ma avevano anche altri sistemi di chiusura più complicati i quali richiedevano una seconda zip. Nelle tute A7-L questa zip correva dalla schiena al davanti.

Le ultime tre missioni Apollo (15, 16, 17) erano equipaggiate con vicoli lunari LRV per spostarsi sulla Luna, le tute spaziali indossate in queste missioni erano simili a quella A7-L, realizzate con gli stessi materiali ma modificate per permettere agli astronauti di sedersi e di inginocchiarsi più facilmente. Le differenze sostanziali tra A7-L e le nuove tute chiamate A7-Lb, era la parte posteriore fatta in modo che gli astronauti si sarebbero potuti sedere senza applicare troppa tensione sulle zip. Le chiusure erano quindi riposizionate dal dietro della tuta al fianco e di conseguenza fu necessario spostare tutti i tubi necessari alla vita dell’astronauta. Le altre modifiche includevano uno strato di gomma-neoprene e nel collo un cavo addizionale che permetteva il posizionamento in alto o in basso del casco con delle chiusure per proteggere la tuta. Questi cambiamenti rendevano la tuta leggermente più pesante. Il mantenimento della temperatura corporea dell’astronauta era un parametro importante, per questo motivo la tuta base consisteva in uno strumento di regolazione della temperatura, una membrana pressurizzata ed un guscio protettivo. Lo strato più interno era costituito da una serie di tubicini simili a spaghetti attraverso i quali scorreva dell’acqua fredda per mantenere l’astronauta ad una temperatura confortevole (Fig. 4). Più esternamente c’era lo strato che manteneva un’adeguata pressione grazie alla quale l’astronauta avrebbe sopravvissuto. Questo consisteva in un foglio di nylon leggero, una valvola pressurizzata a tenuta d’aria e da uno strato esterno rigido per mantenere la forma della valvola. Delle giunture flessibili sulle spalle, sui gomiti, sui polsi, sulle cosce, sulle ginocchia e sulle caviglie permettevano una maggiore mobilità all’uomo. In aggiunta a questa tuta base c’erano numerosi strati di super isolante termico leggero e da un ulteriore strato di teflon. Il casco si connetteva al torso della tuta tramite un anello sul collo a tenuta stagna e nonostante questa giuntura fosse statica, l’astronauta all’interno era in grado di muovere liberamente sia la testa che il collo. Un dispositivo per l’ossigeno, che lavorava in contemporanea con la tuta, era montato in corrispondenza della schiena dell’astronauta. Questo apparato forniva ossigeno ed acqua fredda alla tuta e purificava l’aria espirata dall’astronauta da contaminazioni e impurità. In aggiunta uno “zaino” includeva un sistema di gestione degli sprechi, uno strumento di comunicazione, un alimentatore e serviva come base per l’antenna VHF usata per inviare le immagini sulla Terra.

L’intero equipaggiamento risulta essere un habitat gonfiabile completamente sigillato e pressurizzato. Questo offre protezione per l’astronauta all’interno tramite la creazione di un atmosfera per la sopravvivenza all’interno di un guscio mobile. La tuta spaziale è ritenuta un’unità di mobilità extraveicolare ed anche oggi è considerato un monumento all’umana ingegnosità. E’ importante ricordare che l’invenzione della tuta spaziale dell’apollo avvenne meno di un decennio dopo che 14 aeronauti del British RAF fallirono nell’assemblaggio di un guscio base gonfiabile su un piccolo aerodromo nella campagna inglese. (Fig. 5).
CREDITS
Testi a cura di Valentina Pellegrino
FONTI BIBLIOGRAFICHE
Topham S., 2002, Blow Up: inflatable art, architecture and design, Prestel, Munich
Mc Quaid M., 2005, Extremes texliles designing for high performance, Thames & Dudson, New York
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

Figg. 1, 2, 3, 4, 5: Mc Quaid M., 2005, Extremes texliles designing for high performance, Thames & Dudson, New York