Strutture pneumatiche
Expo Osaka
Giappone - 1970 d.C.
Percorsi evolutivi
Epoca materiali di sintesi
Luogo: Giappone (Osaka)
Caratteristiche: -
Materiali -
Utilizzo: civile
Tipologia: padiglioni espositivi
Progettista: vari
APPROFONDIMENTO
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L’evento che segnò la storia dell’applicazione del pneumatico in architettura fu l’esposizione universale di Osaka nel 1970, la prima ad essere ospitata in Asia. Essa si tenne per un periodo di 183 giorni dal 15 marzo a l3 settembre in un sito di circa 330 ettari, a Senrikyuruo vicino Osaka. L’evento proponeva esposizioni di 76 stati, organizzazioni internazionali, un governo straniero (Hong Kong), 3 stati U.S.A., 3 province Canadesi, 2 città statunitensi, una città Tedesca, 2 corporazioni e 32 organizzazioni domestiche. Attirò più di 64 milioni di visitatori, di cui il 97% Giapponesi, offrendo un nuovo record di esposizioni mondiale e dando all’evento un incredibile successo.

Il tema scelto, “Progresso e armonia per l’umanità”, era un approccio critico alle conseguenze dell’ideologia di sviluppo civile e tecnologico. L’impatto negativo dell’industrializzazione e dell’incontrollato progresso scientifico, prendendo la Seconda Guerra Mondiale come esempio di uso distruttivo delle varie scoperte, era particolarmente accentuato. Lo scopo dell’esposizione era di mostrare possibili utilizzi delle tecniche moderne per creare le fondamenta di un’alta qualità di vita e pace per il mondo. Il tema incorporava la speranza che il genere umano continuasse il suo corso di sviluppo mantenendo l’armonia tra i popoli e tra l’uomo e l’ambiente.

L’eccentrica Torre del Sole, Taiyo-no-to, era il simbolo di questo concetto (Fig. 1). Progettata e costruita dal famoso Taro Okamoto, venne localizzata al centro della “Symbol Zone”, un’area progettata per esprimere il tema dell’Expo e si innalzava sopra la volta della Festival Plaza ad un’altezza di 65 mt. La Torre era composta da tre facce: la Black Sun, la Golden Sun e una grande immagine, senza nome, rivolta verso l’entrata principale. Questo obelisco pneumatico emergeva da un foro di 58 metri di diametro della copertura della piazza. La Festival Plaza, utilizzata come punto di interazione per i visitatori, fu teatro di circa 270.000 espositori e più di 10.000.000 di ospiti; venne progettata da Kenzo Tange che propose una struttura reticolare in acciaio a maglia quadrata di 10.8 m di lato, alta 30 metri. Lo spazio era chiuso da un doppio film pressurizzato chiaro e traslucente.  

Prima della mostra, il sito era un magnifico paesaggio naturale che mostrava nostalgiche scene pastorali, foreste di bambù e campi, quindi, per far posto all’esposizione e al tipo di organizzazione che la gente avrebbe desiderato, questo scenario fu distrutto. Alla fine dell’Expo il sito fu convertito in parco naturale (Expoland) tramite gli sforzi di molte associazioni, ora è un parco naturale multifunzionale che combina cultura, sport e servizi tutto circondato dal verde. Lo sviluppo del parco e il rimboschimento continua ad essere portato avanti. La Torre del Sole, assieme a poche altre costruzioni, rimane ancora oggi a commemorare l’esposizione all’interno del parco.  

Il comitato organizzato dell’Expo ’70 non pose restrizioni riguardo alla costruzione dei singoli padiglioni; anzi, fu chiesto a progettisti ed architetti di costruirli espressivi, originali e colorati, per quanto possibile. Gli obiettivi a cui dovevano rispondere i progetti dei diversi padiglioni erano quindi il risparmio economico, la smontabilità alla fine dell’evento, la facilità e velocità di assemblaggio.  

Alcune delle compagnie scelsero temi piuttosto divertenti per i loro padiglioni: Suntory, un’azienda che produceva whiskey, scelse il tema “Water of life”, (acqua della vita), mentre la Japan Gas Association aveva come tematica “World of Laughter” (un mondo di risate). Altri colossi industriali partecipanti all’esposizione furono la Ricoh, la Mitsubishi, la Fuji, la Mitsui Group, la Toshiba e la Japan Telecommunications (Fig. 10).

I padiglioni degli stati non erano da meno rispetto a quelli delle diverse società in termini di creatività. Tutti i progetti, dal tradizionale castello o tempio, a quelli altamente futuristici dalle forme fantastiche, potevano essere trovati all’Osaka Expo. Infatti l’Expo fu l’apice di una tendenza iniziata già dagli anni ’30: per i loro temi, i diversi paesi, anziché prendere spunto da ciò che realmente li caratterizzava, si indirizzarono su temi astratti, partendo dalla associazione di immagini dai significati artistici che dessero delle rappresentazioni evocative e carismatiche. In molti casi, la connessione tra la mostra e il rispettivo paese era presa piuttosto alla lontana e trasmessa attraverso suoni e filmati, un approccio piuttosto innovativo.  

In contrapposizione agli intenti originali dell’esposizione, le due superpotenze, Stati Uniti e URSS, usarono l’Expo per mostrare il loro potere e il loro modo di vivere. Mentre il tema del padiglione americano era “Immagini dell’America”, l’Unione Sovietica enfatizzava “L’armonioso sviluppo dell’individuo sotto il Socialismo” La sfida tra le due superpotenze, fomentata dalla Guerra Fredda in corso, risultò chiara anche dall’organizzazione dei rispettivi padiglioni che ricevettero i lotti più grandi e visibili della mostra. Entrambe le costruzioni superarono tutte le altre per bellezza. Il 1970 fu l’anno successivo a quello dell’atterraggio sulla Luna da parte dell’uomo: questo risultato e la “Race to the Stars” tra Russi e Americani aveva dominato la seconda metà degli anni ’60. I padiglioni, perciò, enfatizzarono pesantemente i loro progressi tecnologici nella tecnologia aerospaziale.  

All’inizio del 1966 la USIA (United States International Agency) iniziò il processo di selezione delle diverse squadre di progetto per il padiglione americano. Architetti e progettisti furono intervistati ed i più promettenti furono chiamati a sviluppare i progetti preliminari. Coloro che furono invitati furono incoraggiati a lavorare in gruppo. Non c’erano limitazioni imposte dalla USIA sul tipo e sulla natura del padiglione. L’originaria richiesta di 17.75 milioni di dollari per coprire i costi amministrativi, costruttivi e progettuali, fu prima convertita a 16 milioni di dollari dal Bureau of the Budget, quindi tagliata fino a 10 milioni dal Economy-Minded 90th Congress.  

Tra le 11 schematizzazioni sottoposte alla USIA quel settembre il gruppo selezionato fu il team di Rudolph DeHarak e Chermayeff & Geismar progettisti con Davis, Brody & Associates architetti, che propose una struttura gonfiabile. Il padiglione degli Stati Uniti dell’expo ’70 presentò una delle prime volte pneumatiche: questa era di forma ellittica tenuta da funi legate a ‘mo di diamante e non era previsto un anello centrale di tensione. I cavi erano sistemati in maniera da ridurre l’impatto con il vento, che nel sito poteva superare i 150 miglia/h. Il progetto, vide i propri fondi, come detto prima, diminuire: infatti l’importo era di 2,6 milioni di dollari.  

Una struttura aerosupportata era nelle idee del team di progettisti fin dall’inizio infatti si voleva installare un megaschermo sulla superficie interna della cupola realizzata con un tessuto di fibre di vetro immerso in una pellicola vinilica leggera e resistente. L’uso di questo film, messo a punto dalla NASA per le tute degli astronauti, conferma lo stretto legame tra le strutture pneumatiche ed il settore aerospaziale. La struttura viene completata da una rete di cavi metallici sovrapposti alla membrana che impediscono al telo troppo grande di lacerarsi. I cavi, intrecciati a punta di diamante, creano sulla volta convessa tante piccole frazioni romboidali, anch’esse convesse che danno all’intera volta l’aspetto di una coperta trapuntata (Fig. 2).

Il padiglione americano condusse al coinvolgimento della Birdair con l’architetto e ingegnere David Geiger il quale realizzò che un tessuto permanente non combustibile era necessario per espandere il mercato per le tensostrutture. La Owens Corning Fiberglass Corp., la Dupont, e la Chemical Fabric Corp. lavorarono insieme e svilupparono il tessuto detto Chemfab Sheerfill Teflon.  

Il padiglione tedesco, invece, era un auditorium sferico attrezzato con oltre 50 speakers della Siemens in anelli concentrici e illuminato da una volta stellata creata dall’artista Otto Pien, realizzato dall’artista del suono Karlheinz Stockhausen. In questo teatro 20 musicisti e cantanti proposero le opere dell’artista che nello stesso tempo manipolava e mixava i suoni nel suo cosiddetto “sound mill” (Fig. 3).

Il padiglione più famoso, però, rimane quello progettato da Jakata Murata per il gruppo Fuji (Figg. 4, 5, 6). Esso ha una base formata da un cerchio di 60 metri di diametro e con una copertura di 24 tubi pneumatici, tutti del diametro di 4 metri e lunghi 110. La volta della copertura ha un’altezza di 35 metri al centro e di 45 alle estremità. Nella fase di gonfiaggio ciascun tubo raggiungeva automaticamente la posizione esatta, una volta raggiunta la pressione prevista. La successione degli archi era resa solidale attraverso cavi d’acciaio. Il padiglione era immerso in uno specchio d’acqua. All’interno un tapis roulant circolare faceva compiere agli spettatori due volte il giro della sala.

Sempre Murata progettò il “teatro galleggiante” su una piattaforma circolare coperto da una doppia membrana tesa da tre arconi pressurizzati e da un sistema di cavi di irrigidimento. Il fluido utilizzato tra le due membrane e negli arconi era l’acqua. La pressione poteva variare a seconda delle condizioni metereologiche in modo da sempre stabilità anche in caso di forti venti o temporali.

Il sistema di galleggiamento invece consisteva in 48 sfere di PVC poste al di sotto della piattaforma di base, la cui pressione era regolata da un sistema automatico a seconda della distribuzione di peso al di sopra di esso: il teatro rimaneva sempre in posizione orizzontale indipendentemente dagli spostamenti delle persone.

Il progetto del padiglione della Francia presenta una struttura complicata: ha la forma di quattro grandi emisferi pneumatici, tre dei quali riuniti in un corpo trilobato e uno isolato su una base di cemento. Uno di questi emisferi si completa, assumendo quindi la forma di sfera, nel sottosuolo, presenta infatti una parte interrata. Il padiglione è stato progettato dagli architetti Jean Le Couter e dall’ingegnere Jean Prouvè. L’involucro delle cupole pneumatiche era in tessuto di nylon e le dimensioni del telo del corpo trilobato sono le seguenti: altezza 37 mt, larghezza 75 mt e lunghezza 140 mt. Variazioni della pressione provocavano vibrazioni della pelle di rivestimento e sulle pareti traslucide si svolgeva di notte uno spettacolo audiovisivo con proiezioni (Figg. 7, 8).

Altre applicazioni del campo pneumatico sono i “mush ballons” coperture famose in quanto strutture semoventi. Esse, sono costituite da un supporto verticale in acciaio e da una serie di cuscini pressurizzati dall’ acqua disposti radialmente che si possono aprire e chiudere come un comune ombrello. Il sistema di chiusura è costituito da una serie di cavi che, partendo dalla sommità del supporto verticale, sono agganciati radialmente ai cuscini pneumatici. Il diametro dei mush ballons aperti varia dai 15 ai 35 metri (Fig. 9).

Il Ricoh Pavilion, invece, sfruttava la leggerezza dell’elio per sollevare una sfera pneumatica contenente all’interno una forte sorgente luminosa colorata. Una rete di cavi ancorava questa sfera al basamento e permetteva la salita e la discesa dell’oggetto a seconda dei momenti.

CREDITS
testi a cura di Valentina Pellegrino
FONTI BIBLIOGRAFICHE
Topham S., 2002, Blow Up: inflatable art, architecture and design, Prestel, Munich
Fuzio G., 1968, Costruzioni Pneumatiche, Dedalo Libri, Bari
www.antonraubenweiss.com/expo/week18.html
http://www.expo70.or.jp/e/index.html
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Fig. 1: http://www.classicmanga.com/20thcenturyboys/enc_osaka_expo_1970.html
Fig. 2: http://www.columbia.edu/cu/gsapp/BT/DOMES/OSAKA/osa86.gif
Fig. 3: http://www.stockhausen.org/osaka.html

Figg. 4, 5, 7, 8: Fuzio G., 1968, Costruzioni Pneumatiche, Dedalo Libri, Bari